EDUCARE NEL DIGITALE 5: RIVALUTARE IL LAVORO

Quinta puntata dell’educare nel digitale. Terza sfida: il mito dei soldi facili. La soluzione? Rivalutare il lavoro, partendo dalla sua dignità.

LA DIGNITÀ DEL LAVORO COME REALIZZAZIONE DI SÉ

Nella prime due puntate abbiamo aperto la riflessione (è possibile educare al e nel digitale e quali sono le sfide lanciate dal digitale). Nelle successive due abbiamo visto le prime due minacce: quella dell’immagine perfetta e quella della risata comunque. Ora passiamo alla terza: il rivalutare il lavoro per riscoprire l’impegno e la realizzazione di sé.

Il sospetto alla base: i soldi facili.

Nell’ultima puntata, dove abbiamo parlato del divertimento, avevo scritto che un dogma di oggi è: “Tutto, subito e a nessun costo”.

Il “nessun costo” è il punto di questa puntata. Perché oggi l’accesso alla liquidità è decisamente più immediato e facile di una volta. Mentre per assurdo è sempre più lontano il tempo in cui i soldi te li guadagni tu. Quindi si ottiene qualcosa senza conquistarla. Ma questo che cosa comporta? Che la risposta si sposta totalmente sulla cosa da ottenere e non anche sul processo.

Massimo Mercati, nel suo splendido libro L’impresa come sistema vivente (qui la mia recensione), a un certo punto, riporta la differenza tra telos (fine) e scopòs (obiettivo). L’obiettivo è qualcosa che si vuole raggiungere, facilmente misurabile, mentre il fine è come i sogni, è qualcosa che in fondo non raggiungiamo mai, perché è inesauribile. Mercati si chiede a che cosa possa mai servire un fine se non si realizza mai. Serve perché è quello che ci motiva anche quando non raggiungiamo l’obiettivo, perché il fine non dipende dalla vittoria, ma da noi stessi. Possiamo perdere una partita (obiettivo), ma decidere di giocare con stile e con fairplay (fine), dipende da noi e non ce lo può togliere nessuno. Quando togliamo il fine, lo scopo diventa esasperato ed esasperante, tanto che a un certo punto non ci interessa neanche più l’obiettivo, vogliamo solo il risulato.

Nel caso dei soldi, vogliamo i soldi e basta, vogliamo quello che possono darci e se abbiamo eliminato la soddisfazione di averli guadagnati, conquistati, non ci resterà altro che volere sempre una nuova cosa in più, che poco dopo non ci soddisferà più. Perché non abbiamo estinto la sete che abbiamo dentro di noi.

La grande paura: sexting e challenge.

Tornano due paure che avevamo già visto. Il sexting è lo scambio di immagini e testi a sfondo sessuale. Secondo una ricerca del 2018 di Save the Children: quasi il 20% delle femmine e oltre il 23% dei maschi considera sempre “pratica diffusa” tra coetanei l’invio di video e immagini “seminudi, nudi, per ricevere regali, come ad esempio ricariche telefoniche”, per soldi, quindi.

Anche le cosiddette challenge, le sfide ai limiti dell’umano, hanno radici nei soldi oltre che nel riconoscimento sociale. Come ha detto a SkyTg24 il consulente in cyber-security e digital forensics, Riccardo Meggiato, “tutte le attività all’interno del cosiddetto Deep Web sono mosse da due beni: i soldi e il sesso“,

La sfida: rivalutare il lavoro

C’è una riflessione di cui sono a debitore a d. Luca Peyron, uno dei più grandi esperti di antronomia, la scienza che studia il rapporto tra uomo e digitale. Il lavoro dà dignità all’uomo, perché l’uomo è lavoro. Noi non lavoriamo semplicemente, noi siamo lavoro, perché da quando nasciamo, le nostre cellule lavorano continuamente. Se questo lavoro si interrompe, noi moriamo.

Noi siamo lavoro. Sempre. Perché anche il riposo è un lavoro. Lo sanno bene tutti i medici dell’età che ci insegnano a prenderci cura del sonno per vivere bene il riposo. Lo sapevano i grandi educatori che distinguevano tra ozio e riposo: l’ozio ti capita, ti imbruttisce; il riposo lo scegli, ti aiuta. Perciò siamo sempre lavoro.

L’essere lavoro ci fa capire che una parte della risposta è anche nel viaggio non solo nella meta, così come una parte della risposta è nel processo e non solo nel prodotto. Noi lavorando, siamo in sintonia con noi stessi, per questo quando lavoriamo ci sentiamo realizzati. Ma se questo è vero, perché al lavoro spesso stiamo male? Perché la sintonia con sé stessi è disturbata da altri elementi, uno diremmo più del sistema, uno più nostro. Il non riconoscimento e l’inerzia. Da questi due elementi nascono due principi che ci pemettono di educare nel lavoro:

  1. Autorialità. È il principio alla base del diritto d’autore: se qualcuno guadagna qualcosa con una tua opera, tu devi guadagnare qualcosa. Il diritto d’autore è però una conseguenza, del fatto che qualcuno è riconosciuto autore. In qualunque lavoro va ricosciuta l’autorialità del lavoro: che l’hai fatto, che l’hai fatto bene, che l’hai fatto con il tuo stile. In un bellissimo articolo, che tra l’altro parla proprio di adolescenti e suicidi, lo scrittore e amico Alessandro D’Avenia, specifica che è meglio parlare di “autori di sé”, che non “realizzazione di sé”, perché autore autore, dal latino augeo, significa «far crescere» e non «creare da zero». Diventare «autori» libera le energie del corpo e della psiche rivolgendole all’aumento della vita stessa, in sé e attorno a sé. Non mi devo, come purtroppo diciamo loro, «realizzare» (come se non fossi già reale) grazie a performance, validate e valutate da altro e altri, ma sono chiamato a «compiermi» a partire dalla verità di chi sono, con i miei limiti e pregi.
    Il lavoro mi fa sperimentare l’autorialità, ma per sbocciare completamente questa deve essere riconosciuta.
  2. Sollecito. Se è vero che lo stress sano ci fa crescere, è altrettanto vero che per inerzia noi tendiamo sempre a una confort-zone. Ed è altrettanto vero che se viviamo un tempo di “tutto, subito e a nessun costo”, anche chi lo combatte comunque ne respira l’aria. Tutto questo per dire che è necessario avere continuamente degli aiuti. Sia esterni che personali. Nei percorsi di crescita personale, ci sono continuamente delle tecniche per non cadere nell’apatia, nella confort zone, nella procrastinazione costante. Sollecito significa letteralmente muoversi interamente, muovere l’intero, in poche parole darsi una mossa. Non può che essere fastidioso. Eppure con la stessa radice, c’è sollecitudine, una delle parole più belle che conosca: mi muovo interamente per non permettere che tu possa bloccarti del tutto.

L’opportunità: educare al lavorare e alla dignità del lavoro

I due principi visto sopra ci dicono che educare al lavoro oggi è fondamentale. Perciò ecco alcuni consigli pratici.

  1. Si educa al lavoro facendo lavorare. Inutile girarci intorno, non educhiamo al lavoro con grande discorsi, ma facendo lavorare. Partendo dai piccoli lavori di casa, ordinari e straordinari (che sono quelli che gasano di più). Si tratta di far lavorare sia dando consegne sia lavorando insieme.
  2. Bisogna sempre restituire sul lavoro fatto. Con il tempo si impara a godere del lavoro fatto, all’inizio no. Per questo la restituzione su quanto si è fatto, è fondamentale.
  3. Gestite i premi. Non date i primi semplicemente per aver fatto un lavoro. Agite sul simbolico: privilegiate i momenti in cui vi premiate per aver fatto un bel lavoro insieme, più che il riconoscimento tout court, i ragazzi impareranno a vivere la ritualità del darsi un premio per un lavoro ben fatto.
  4. Lavorate sui blocchi di lavoro. Aiutate a trovare alcune tecniche per aggirare gli inevitabili ostacoli e restituite sempre i successi di superamento della confort-zone.

In conclusione

L’educazione al lavoro e alla sua dignità non è in auge. Per tanti motivi, ma il principale è di nuovo è che vogliamo “Tutto, subito e a nessun costo”. Educare al lavoro e alla sua dignità, chiede piccoli passi che portano frutto tra molto tempo con un forte impegno da parte nostra. Perché farlo? Perché da questo dipende il nostro presente e il nostro futuro: senza questa educazione, perché dovrei tenere aperta un’azienda nei momenti di crisi? Perché dovrei pagare le tasse? Senza questa educazione saremmo tutti più deboli, tutti fragili, e più siamo fragili e più crolla la coesione sociale. Più crolla questa e più noi restiamo senza punti di riferimento. Ora decidete voi che razza di uomini e di donne si può essere quando i punti di riferimento crollano, e ogni riferimento a pandemie, crisi di guerra, crisi economiche è puramente voluto.

Gigi Cotichella