Un’icona per la pastorale 2

La seconda puntata sull’icona della pastorale ci aiuta ad addentrarci nella descrizione del miracolo stesso. Gigi Cotichella pone l’accento sulla scelta dei verbi utilizzati dall’evangelista e ci guida verso un’ascolto autentico. 

Il Verbo ci dice di fare attenzione ai verbi

Nell’episodio che stiamo analizzando, ci sono alcuni verbi. Vediamo come li affronta p. Fabrizio e poi proviamo ad andare in profondità.

“Gesù conduce in disparte l’uomo sordo e balbuziente perché è necessario un rapporto personale con Lui per essere sanati da quell’«avere orecchie e non ascoltare» (cf. Mc 4,9), è necessario, per un vero ascolto di Dio, restare in disparte con Gesù, è necessario far tacere il resto […]  Per altri miracoli Gesù non ha avuto bisogno di compiere gesti, di usare cose… qui è diverso! Qui Gesù tocca, usa la saliva… farà lo stesso per il cieco (cf. Mc 8,22-26); la sua parola, in questi casi, si accompagna ad un gesto che tocca gli organi coinvolti, un gesto che designa il “luogo” in cui è necessario ristabilire la “funzione”!

Marco però non si ferma qui, il miracolo è infatti accompagnato da un gesto, da un gemito e da una parola… Il gesto è il levare gli occhi al cielo perché Gesù sa che l’ascolto è il grande dono del Padre. […]

Segue una cosa: il gemito; e questo rivela la sua umanità. […] Gesù geme di fronte al dolore, al male che abita l’uomo, di fronte alla finitudine ed alla fragilità. È come se Gesù, primogenito della creazione (cf. Col 1,15), emettesse per primo questo gemito che fino a quel momento nessuno osava emettere perché era assente ogni speranza”

Vediamo subito questi primi 3 verbi.

Il primo verbo: portare in disparte

Che cosa può essere nella pastorale un “portare in disparte”? Ha senso proprio oggi che sembra funzionare molto meno il richiamo di venire in parrocchia? Il portare in disparte di Gesù è un’azione che apre a due effetti, che diventano un primo obiettivo della pastorale. Il primo effetto è allontanarsi dalla folla, il secondo è mettere al centro la persona. Non è intimismo e non è individualismo, è “altra logica” e “personalismo”.

Nella pastorale noi dobbiamo creare altre logiche da quelle mondane. Se imperversa la prestazione a tutti i costi, il nostro agire deve mostrare altro. Se tutto ha un tornaconto, il nostro agire deve mostrare altro.

E bisogna mettere al centro la persona. Dio non ama tutti. Dio ama ciascuno. È molto diverso. Questo ci porta a delle conseguenze.

  • Mettere al centro la persona non è in antitesi con il mettere al centro Gesù, perché è Gesù che ci chiede di mettere al centro l’altro. E noi crediamo che con Gesù sia possibile mettere al centro l’altro anche nei momenti più difficili.
  • Mettere al centro la persona non è accrescere l’individualismo. Scegliere la persona significa mettere a sistema che ogni persona curata migliora il mondo e che per curare una persona devo accompagnarla a far sì che lei si prenda cura del mondo, degli altri. Il bene di ognuno passa sempre attraverso il Bene Comune.

“Portare in disparte” diventa il primo criterio di verifica di ogni azione pastorale: il modo in cui facciamo le tante azioni annunciano un nuovo modo di essere e di vivere?

Potremmo scoprire che alcune ore di catechismo hanno molto poco a che fare con l’annuncio del Regno di Dio e invece una festa per giovani con alcuni criteri precisi sono un annuncio reale.

È osare l’arte del gioco e della sua spiritualità. Il gioco è un andare altrove per sperimentarsi in contesti protetti e apprendere di più. Il gioco obbliga a dover stare, chiede di mettersi in gioco, aiuta a guardare più in là.

Non si tratta di fare dei giochini, si tratta di cambiare le regole del gioco.

Il secondo verbo: Toccare le orecchie

Significa lavorare sulla capacità di ascolto. Il verbo non dice se è uno sfiorare o se è un vero e proprio sturare, questo vuol dire che ci possono essere tutti i gradi di intensità.

Come si lavora sulla capacità di ascolto? Lavorando sulla formazione. Ed è bellissimo pensare che la formazione non lavora su ciò che si ascolta, ma sulla capacità di ascoltare. Non si tratta di dare contenuti. O almeno non solo e non principalmente. Si tratta di far crescere le persone. E si cresce se ci si appropria di contenuti con nuove consapevolezze.

Riprendendo un articolo di d. Riccardo Tonelli, troviamo gli elementi che servono per una formazione nella pastorale.

“L’oggetto dello scambio [nella relazione educativa] sono «esperienze che si fanno messaggio». Quello che viene comunicato non è costituito né solo da esperienze di vita e neppure solo da parole. Sarebbe uno scambio troppo povero in tutti e due i casi: poco umanizzante e promozionale. Parole e esperienze si intrecciano invece per trasformare le esperienze in messaggi. L’oggetto dotato di maggior spessore è l’esperienza: quella povera, frammentata, sofferta che costituisce il quotidiano di ogni persona e quella sognata e ricercata che costituisce il suo progetto. Le esperienze vanno però lavorate con le parole: decifrate, interpretate, riscritte come progetto verificabile e generalizzabile. Lavorate con le parole, divengono «messaggio»: significato per la vita, contributo di una esistenza ad un’altra esistenza.”

Le esperienze sono le attività che proponiamo. Le parole sono i portatori di significato, e quindi ovviamente anche la Parola di Dio. Per crescere non basta fare qualcosa, bisogna che mi appropri del significato. Per crescere io devo rielaborare le esperienze con le parole di senso. La rielaborazione è quello che fa diventare le esperienze, messaggio.

Quindi la formazione nella pastorale, “apre le orecchie”:

  • Dando esperienze;
  • Proponendo parole di senso;
  • Creando tempi per far lavorare le esperienze con le parole.

Il terzo verbo: Mettere la saliva

Forse esagero, ma per me è come dire baciare.

Baciare oggi è spesso simbolo di erotismo, tanto più se c’è uno scambio di saliva. Ma in realtà nasce come uno dei più bei gesti d’amore: masticare il cibo per i propri figli e passarlo senza sporcarlo con le mani.

Oggi ci fa senso, sicuramente è poco romantico, ma ci dice che l’amore è vero se nutre l’altro, se lo fa crescere. Altrimenti è una cosificazione.

La pastorale deve essere nutrimento e cura. Se non nutre e non cura, allora c’è qualcosa che non funziona. Amare è impegnativo. È più facile sedurre oppure condannare. Sono i due estremi della pastorale, che però indicano che il centro siamo noi, che sotto sotto bisogna fare solo come diciamo noi. Mettere al centro l’altro, mettersi a servizio dell’altro è un’altra cosa.

E attenzione, mettere al centro l’altro non vuol dire far decidere l’altro dando spazio ad ogni capriccio, significa evitare di usare l’altro.

Segno del Suo amore

La pastorale deve essere un segno di amore. I nostri spazi dicono cura? I nostri calendari dicono sollecitudine? Le nostre riunioni dicono accoglienza?

Gigi Cotichella

Per rileggere “Che cos’è la pastorale” parte uno.

Foto del blog di Fra Sereno