Un’icona per la pastorale 1

La parola pastorale ha un campo semantico ampio e vario in ambito ecclesiale.  Gigi Cotichella ci guida alla scoperta del caleidoscopico senso della pastorale nella Chiesa, una piccola rubrica di tre puntate, oggi inauguriamo la prima sul tema dell’icona della pastorale

Che cos’è la pastorale

Quando siamo  molto impegnati nella “pastorale” non ci viene in mente che in effetti prima di definire l’impegno di qualcuno in una comunità cristiana cattolica, pastorale è aggettivo di uno dei lavori più antichi del mondo e in generale sinonimo della vita in campagna, che da questo è diventato uno stile artistico fino a definire una sinfonia di Beethoven, la 6ª detta appunto “Pastorale”. È anche il bastone del vescovo che nel suo ministero si rifà a Gesù Buon Pastore, da qui deriva un primo problema ecclesiale: pastorale riguarda l’agire dei pastori, in primis il Papa, poi i vescovi e poi i presbiteri.

Agire come Chiesa

Se fosse solo così, dovremmo ammettere che con chi è impegnato in parrocchia o in un movimento, c’entra ben poco. Da dopo il concilio, tutti i papi che si sono succeduti hanno utilizzato il termine in modo diverso, facendoci capire che pastorale è un termine a più sfaccettature. La nostra sfaccettatura riguarda la pastorale come l’agire della Chiesa tutta in quanto Chiesa. Quindi è pastorale anche l’insieme di tutte le azioni che una comunità ecclesiale compie per attuare la sua missione. E qual è la sua missione? È favorire l’incontro degli uomini con la Parola di Dio.

La Parola di Dio

Ovviamente dobbiamo intendere Parola di Dio in senso più ampio possibile:

  • La Parola di Dio è il Logos, è Gesù stesso, quindi, noi favoriamo l’incontro con Dio.
  • La Parola di Dio chiede di essere vissuta, quindi, non è uno sforzo di studi biblici, ma voglia di incarnare ciò che la Parola dice.
  • La Parola di Dio è incarnata e quindi mette a sistema che la Verità non va annacquata, ma va ridetta in modo diverso a seconda dei contesti di tempi e luoghi.
  • La Parola di Dio fonda l’agire della Chiesa nell’unità (ecclesialità), verso gli altri bisognosi (carità), verso Dio (liturgia), verso tutte le dimensioni della vita (diverse pastorali), verso noi stessi (spiritualità), verso la nostra crescita globale (catechesi, educazione, formazione).
  • La Parola di Dio è parole, ma è anche l’agire di Gesù, ma è anche il suo modo di agire, ma è anche Gesù stesso, ed è anche il fondamento dell’agire della Chiesa inviata da Gesù.
  • Da questo nasce una triade che si riflette nella pastorale: parole, azioni, relazioni.
  • Le “parole” sono da intendersi come nel contesto ebraico: sono il segno della riflessione, dell’interiorità. Sono parole di narrazione, cioè, riprendono sempre una storia. Rielaborano le esperienze. Le parole non sono inutili e non vanno sprecate.

La cura

A tutto questo va aggiunto un particolare. Pastorale in questo senso è comunque un’abbreviazione. Pastorale intende la “cura pastorale”. Quindi quando noi facciamo Pastorale noi curiamo l’incontro tra la Parola e gli uomini. Lo favoriamo in alcuni contesti e lo approfondiamo in altri. Saniamo ferite in alcuni contesti e ci prendiamo cura in altri.

Se è per la Parola, serviamoci della Parola!

Come fare una riflessione sulla pastorale. Ci sono tanti studi, tante applicazioni, tanti metodi… Certo che in molti posti di questo “tanto” è arrivato ben poco, ma a volte il rischio di confondere una conseguenza con la fonte, c’è. Le derivazioni sono importanti, ma bisogna stare attenti di non andare alla deriva. Per evitarlo, bisogna tornare continuamente alla fonte. La fonte è la Parola.

Esiste un’icona particolare della pastorale? Se esiste l’icona per la carità (il buon samaritano), l’icona per il colloquio spirituale (la samaritana), l’icona per i cammini vocazionali (il giovane ricco), l’icona per la progettazione pastorale (il figliol prodigo), esiste un’icona per l’agire pastorale?

L’icona paradigmatica

L’icona potrebbe essere Marta e Maria. Ma spesso è stata travisata mettendo un sospetto sull’agire. Il fare non è un male in sé. Mai. E non c’è un vero primato dell’essere sul fare in questa vita, perché l’essere è chiamato a sfociare nel fare. Non siamo forse chiamati a “fare la volontà del Padre”? E se il fare è così secondario, perché ci scandalizza così tanto chi dice di essere, ma fa l’opposto? Il fare non è forse la prova di ciò che siamo? “Dai frutti li riconoscerete”.

Quindi meglio puntare su un’altra icona. Un momento del vangelo dove Gesù non solo agisca, ma “perda tempo nell’agire”, dove quasi sembri che l’agire sia fondamentale, dove non basti la parola di Gesù. Gesù non aveva ansia da prestazione, quindi se si è soffermato ad agire significa che ha un senso. Deve essere però un episodio dove non c’entri solo la vita di Gesù, ma anche la vita di qualcuno che toccato da Gesù sia stato cambiato. Ma anche dal suo agire. E non solo dal suo parlare. Potrebbe essere il brano della guarigione del sordomuto.

“Di nuovo, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi  e con la saliva gli toccò la lingua;  guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.” (Mc 7,31-35)

Il contesto

Proviamo ad analizzare il brano, con l’aiuto di alcune riflessioni di p. Fabrizio Cristarella Orestano. Marco ci tiene all’inizio a dirci come Gesù sia in territorio pagano.

“Viene portato a Gesù un uomo che è sordo e che parla con difficoltà, tanto balbuziente da non riuscire ad esprimersi; non è proprio muto, è uno che emette suoni inarticolati; e che sia così lo comprendiamo alla fine del racconto ove si dice che, guarito, parlava correttamente. Siamo in territorio pagano e Gesù, dopo il miracolo per la figlia della donna siro-fenicia, ha aperto il suo messianismo a tutte le genti e Marco si sta compiacendo di mostrarci come Gesù percorra in lungo e in largo il territorio che è fuori dalla terra di Israele…il racconto di Marco è contemporaneamente pieno di particolari geografici, di particolari realistici, ma anche di significati ulteriori… insomma in quel gesto storicamente concreto c’è qualcosa da cogliere: i pagani non hanno la capacità di ascolto, non hanno lo Sh’mà e dunque non ascoltano. Devono ricevere anche loro il comandamento primo che Israele ricevette: Sh’mà, Israel!, Ascolta, Israele! (cf. Dt 6,5 e Mc 12,29); ne devono diventare capaci; poiché non hanno l’ascolto mancano anche della capacità di parlare correttamente, il loro parlare è confuso!
Questa condizione dei pagani è però tante volte anche la nostra condizione di credenti divenuti sordi dinanzi alle provocazioni di Dio e chiusi in certi perbenismi “religiosi” che non hanno più sapore di Evangelo. La scena, dunque, ci riguarda a più livelli.”

Una nuova apertura

Se questo brano è l’icona della pastorale, allora la cura pastorale serve a renderci capaci di nuovo ascolto e di nuove parole. Davvero è tutto in questo passaggio. Perciò tutto quello che facciamo deve portare lì. Il nuovo ascolto indica l’impegno ad aprirsi a Dio, le nuove parole indicano l’impegno a una nuova vita dopo l’ascolto di Dio.

Continuiamo a parlare di fare. Perché questo è un miracolo dove il fare è protagonista. Sono infatti ben 6 le azioni preparatorie prima del miracolo stesso.

EFFATA’:

  • portare in disparte
  • aprire le orecchie con le dita
  • toccare con la saliva la lingua
  • guardare verso il cielo
  • sospirare
  • ordinare

Affrontando questi sei verbi, riusciamo quindi a scoprire lo stile del nostro fare. Ma di questo ne parleremo nelle prossime puntate.

 

Gigi Cotichella

Foto del blog di Fra Sereno