TEORIA, STRATEGIE E TECNICHE

Vanno usate le tecniche nella formazione? Perché? E a quali condizioni? Per trovare una risposta occorre un’analisi più profonda, che parte dalle nostre convinzioni interiori.

Ma perché dovrei usare delle tecniche nella formazione?

Ho iniziato a leggere un libro di Alessandro Manenti del 2013: “Comprendere e accompagnare la persona umana”. Manuale teorico e pratico per il formatore psico-spirituale”. Subito all’inizio ha un paragrafo che mi ha colpito molto. Ve lo riporto qui con qualche taglio. Da lì sono partito per questa riflessione.

L’accompagnatore al lavoro con il suo cliente ha bisogno di tre strumenti: una teoria, una strategia d’intervento e delle tecniche operative.

Una teoria che lo informi di come funziona la persona umana […]. Una strategia, cioè […] un piano di azione a breve e lungo termine che contenga gli obiettivi e i modi di entrare nel vissuto del cliente, così da giustificare le azioni che, via via, si adotteranno. Delle tecniche di intervento, ossia degli accorgimenti «pronti all’uso» da usare di volta in volta e nel qui e ora.

Di solito, da parte di un accompagnatore ingenuo, la domanda circa le tecniche è la più frequente, quella sulle strategie un po’ meno e quella sulla teoria di riferimento è quasi nulla. Con la mira di avere un ricettario per ogni caso, da usare in automatico, ci si esonera dal giocarsi in prima persona con chi si ha davanti ossia dal giustificare a se stessi perché si è scelto di intervenire in una certa maniera piuttosto che in un’altra.

La Visione, tra valori e coerenza.

La visione è il mondo dei sogni e dei valori profondi che guida il formatore. Ce l’abbiamo tutti, perché l’educazione neutrale non esiste, come neanche la formazione. Proprio per questo sarebbe bene esplicitarli e trovare una dimensione di attuazione. Manenti non parla di visione, ma di teoria. Cioè il primo passo è che bisogna esplicitare la visione trovando i perché. Passare da una visione a una teoria, significa aver lavorato sulla visione, averne capito le origini profonde e le conseguenze pratiche, significa renderla attuabile, verificabile e trasmissibile ad altri.

Tuttavia, non basta. I valori e le teorie, infatti senza coerenza non sono una guida, ma semplici parole vuote. La coerenza non è un valore in sé, anche i dittatori del XX secolo sono stati coerenti! La coerenza è come un enzima, un additivo indispensabile perché il valore, ciò in cui crediamo, sia reale, concreto, vitale. È il classico discorso dell’essere testimoni, ma non in senso rigido. A volte mi sembra che diventiamo testimoni proprio perché facciamo qualcosa. Sono sempre stato contrario a chi pensa che dobbiamo essere perfetti prima di agire. Si tratta di un circolo virtuoso tra prassi e teoria, ciascuno dei due poli alimenta l’altro.

È proprio questo alimentare reciproco che mi fa ricordare un passaggio degli studi teologici, quando affrontando l’enciclica Veritatis Splendor di Giovanni Paolo II, ho incontrato il concetto di “educare la coscienza”. Ricordo che mi sembrava un concetto lontano dalla realtà: come fai ad educare la coscienza? Si educa in questo circolo virtuoso, dove la prassi alimenta e pungola la teoria, rendendola anche vera e feconda, mentre la teoria verifica e corregge la prassi, rendendola coerente.

La STRATEGIA, arrivare a un punto.

La strategia è il modo di rendere reale la teoria in cui crediamo. Può avvenire in tre modi.

  • Realizzazione. L’attuazione pratica della teoria nella mia vita, nel mio lavoro, prima che in quella degli altri. Se ci credo lo faccio, non perché debba dimostrare qualcosa a qualcuno, ma perché è davvero parte di me.
  • Rilancio. È il parlarne con gli altri, diffondere una cultura sulla mia teoria. Confrontarsi con chi la pensa diversamente, approfondire con chi è d’accordo, cercare nuove strade con diverse competenze o professionalità. E questo vale sia per il formatore professionale che per l’animatore di gruppi parrocchiali.
  • Applicarla su qualcun altro. La parte più delicata, ma in ogni caso la più applicata, perché un formatore applica la sua teoria sui suoi formandi, perché come abbiamo già detto, non esiste una formazione neutrale.

Leggendo il terzo punto, qualcuno potrebbe pensare al rischio di proselitismo, di plagio. È per questo che è nato il mito dell’educazione neutrale, per evitare gli eccessi. Ma sarebbe come smettere di mangiare totalmente perché devo dimagrire, con il risultato che più che dimagrire, morirei!  Come si può fare? Il rischio del terzo punto è limitato dal vivere serenamente e intensamente i primi due punti.

Tanto più io lavorerò su di me, tanto sarò più libero dal dovere avere conferme da chi accompagno. Perché è questo che genera le relazioni formative tossiche: chiedere al formando di realizzare quello che diciamo solo per darci delle conferme. I formandi con le loro risposte ci danno dei feedback su di noi, fondamentali per rinnovare la nostra teoria, ed è in quel rinnovamento che io mi gioco la mia identità. Anche quando ricevo feedback positivi, è uguale, devo sempre chiedermi come posso mantenere quel livello, che cosa devo ancora fare per crescere. Ed è in quel ricercare e attuare che mi realizzo, non nell’applauso a fine corso (che è bellissimo e va accolto perché ci fa bene, ma non è tutto!).

Le TECNICHE, tra universale e particolare.

Nei miei incontri e nei miei corsi, continuamente incontro due partiti. Quello del “Io non sono per le tecniche” e quelli del “Ci hai portato qualche nuova tecnica?”. La verità come al solito non sta nel mezzo, ma nel difficile equilibrio di ascoltare che cosa ci dicono entrambi i poli.

Hanno ragione chi diffida delle tecniche perché scottato dal formatore ingenuo di Manenti citato all’inizio. Le tecniche sono scialbe e pericolose quando non c’è una visione e una strategia. È come mandare una macchina in discesa a motore spento, in folle e senza nessuno alla guida. Si farà male la tecnica sicuramente e molto probabilmente farà danni a qualcuno o a qualcosa.

Ma hanno ragione anche chi le apprezza e le cerca. Perché tutti noi agiamo e agiamo in un certo modo, quindi tutti noi abbiamo una techné, cioè un fare che produce qualcosa. Quindi meglio guidarla in qualche modo.

Dove sono i problemi? Il problema principalmente sta che la tecnica nasce sempre da un fare particolare che affronta un problema concreto in modo creativo. Quando questo fare, ha un risultato particolarmente brillante, il nostro cervello si chiede: come mai ha funzionato? C’è un modo di replicare questo successo? A questo punto il focus si sposta dal problema che dovevamo affrontare, alla tecnica. L’obiettivo è renderla universale, riutilizzabile in diversi contesti. Per questo lavoriamo sulla tecnica, ci concentriamo sulla tecnica, fino a darle una vera identità, che poi va difesa. Ed è qui che nasce il punto problematico che divide le persone.

Per applicare una tecnica bisogna seguire delle istruzioni, e quando è più complessa bisogna imparare delle metodologie. In questo contesto, basta pochissimo e più che usare una tecnica per aiutare qualcuno, usiamo qualcuno per confermare la tecnica. È per questo che dobbiamo ascoltare la vita, l’altro, il cliente, l’utente. Sono loro che chiedono di incarnare la tecnica, la strategia, la teoria. O per dirla con il codice di Projectus (e della progettazione) chiedono di incarnare finalità, obiettivi, azioni. E mentre la teoria (al singolare) si incarna nell’incontro tra realtà e sogno; la strategia (al singolare) si incarna nell’incontro tra punto di arrivo e punto di partenza; le tecniche (al plurale) si incarnano per scelta di quella più adatta, compresa la scelta di non usarne nessuna o di usare la tecnica della libertà, della semplicità.

Un bravo formatore è quindi alla ricerca di molte tecniche per avere quelle più adatte al suo lavoro, perché il suo lavoro non è difendere la tecnica, ma formare. Ovviamente, è lecito, avere tecniche preferite e anche aver investito in una metodologia più di un’altra, quello che conta però è la logica di incarnare la tecnica scegliendo la tecnica più adatta, accettando anche di rinunciare alla nostra preferita.

In conclusione… ma perché dovrei usare le tecniche?

Che cosa c’è in gioco quando usiamo training tools, tecniche, attivazioni, metodi? Io ho trovato 4 motivi.

  1. Nei gruppi formativi fanno fare un’esperienza condivisa. Io vengo dal teatro e nel teatro la formazione ha un aspetto bellissimo che condivide con il mondo dello sport: spogliatoio e riscaldamento. A teatro spesso ti fanno togliere le scarpe e mettere calze antiscivolo, magari ti fanno cambiare al volo per metterti qualcosa di comodo, questo fa sì che ogni partecipante sa di entrare in un altro mondo. Poi ti riscaldi. Sempre. Camminate, qualche gioco per iniziare. Nei gruppi formativi, la tecnica che genera di fatto un’attivazione, ha lo stesso potere. Fa entrare in un altro mondo, anticipa una parte del sapere, fa vivere l’esperienza della “passaporta” di potteriana memoria, fa sì che il gruppo diventi uno, perché prima c’erano 20 esperienze di vita diversa per 20 persone diverse, ora le 20 persone hanno fatto la stessa esperienza.
  2. Attivano il pensiero divergente. La tecnica fa vedere altri punti di vista, stacca dal muro del vicolo cieco, fa ricalcolare il percorso in modo consapevole, perché per un attimo ci siamo connessi al problema in un altro modo e questo ci ha permesso lavori diversi.
  3. Abbattono le barriere. Se Dewey ha teorizzato il learning by doing, oggi si parla molto del learning by playing. Tutte le tecniche hanno a che fare con il “playing” pur non essendo dei puri giochi. Che differenza c’è tra il “fare” e il “giocare”. Il giocare è sicuramente un fare, ma con qualcosa in più. Il fare abbatte le barriere personali: se devo solo ascoltare, posso fingere, ma se devo fare in qualche modo devo anche schierarmi. Il “giocare” ha in più il divertimento, e attraverso di esso abbatte le barriere relazionali, sia tra i formandi che tra formandi e formatore.
  4. Rispettano l’andragogia. L’uso di tecniche rispetta i principi dell’andragogia, molto più di una lezione frontale. Stimolando il ruolo dell’esperienza, la tecnica accende il concetto di sé del formando, che si fa una sua idea attraverso delle reazioni. Inoltre la tecnica orienta verso l’applicazione concreta e facendo questo stimola la motivazione dall’interno del formando.

GG Cotichella

Foto di Riley McCullough on Unsplash