Un’icona per la pastorale 3

Ultima puntata della nostra icona pastorale. Vediamo insieme gli ultimi tre verbi dell’episodio di Effatà, sempre alla ricerca del verso senso della pastorale.

Guardare verso il cielo

La pastorale c’entra con la fede, la pastorale c’entra con Dio. Dio va messo dentro la pastorale, ma prima di tutto da parte di chi opera. Il vangelo non ci dice che è il sordomuto a guardare verso il cielo, ma è Gesù a guardare verso il cielo. Guardare il cielo prima di far guardare.

Questo passaggio indica la dimensione della preghiera e del pregare, cioè la relazione con Dio.

La preghiera è necessaria?

Pregare ci chiede tre passaggi

  • Dal nulla a trovare dei momenti di preghiera
  • Dal dire le preghiere al pregare
  • Dal pregare al far pregare

Ma noi “dobbiamo pregare”? Si, se vuole fare pastorale. Ma è anche vero che questo sguardo verso il cielo, arriva dopo… dopo l’accoglienza, la formazione, la cura. Come a dire che in questi campi possiamo collaborare anche con chi guarda un po’ meno verso il cielo. E perché solo ora interviene la relazione con Dio? Per ricordarci che per andare nella profondità più totale serve veramente un aiuto sovrumano, serve davvero un intervento divino. Sia nella profondità di me, che nella profondità dell’altro. Per questo iniziamo a pregare e iniziamo anche dicendo delle semplici preghiere.

La preghiera: questione di priorità

Il passaggio successivo è passare dal “dire le preghiere” al pregare vero e proprio. Non si tratta di non dire più le preghiere, ma di dare la priorità al senso più profondo. Pregare significa letteralmente chiedere sia nel senso di interrogare che nel senso di volere. È il verbo che riconosce che Dio è la risposta e che Dio è fonte della felicità. E noi stiamo lì perché ci va tempo per capire la risposta e ci va tempo per attingere. Da questo “stare” noi impariamo la relazione con Dio. In fondo non succede così anche nell’amore? È nella fedeltà dello stare che si vede che l’amore ha superato l’innamoramento.

E da questo dovrebbe nascere il “far pregare”, cioè il guidare dei momenti di preghiera. E quando questo avviene in gruppo allora ce le inventiamo tutte, ma solo con lo scopo di accompagnare a scoprire il vero senso della preghiera

Emette un sospiro

Emettere un sospiro, gemere, indica la parte della passione, del desiderio. È bellissimo che Dio emetta un sospiro prima di entrare nell’intimo del mio essere operatore pastorale, ed è bellissimo che la presenza di Dio non tolga la fatica.

Perché è bellissimo? Perché così quando fatichiamo, quando abbiamo qualche problema, non pensiamo che tutto vada male, perché fa parte del gioco. Se anche Gesù sospira, allora anche i miei sospiri hanno un senso. La stessa parola “passione” indica qualcosa che ci prende totalmente e qualcosa che ci tormenta. Chi fa pastorale non è un asettico, è un appassionato. Di vita, di fede, di umanità, di Dio.

Sospirare ci ricorda che il senso è sia nella meta che nel viaggio. Che tutta la nostra vita è un continuo realizzare e un continuo sapere che non potremmo fare tutto da soli. Per questo abbiamo bisogno degli altri, per questo abbiamo bisogno di Dio.

Dire-Ordinare

Alla fine, si può “ordinare” all’altro qualcosa. Molti di quelli che pensano che la pastorale sia dire che cosa fare, ora sono soddisfatti. Ed è giusto pensare che la pastorale sia anche dire che cosa bisogna fare.

Ma ci sono tre condizioni da rispettare.

  • Bisogna aver fatto tutti gli altri passaggi. Troppe volte indichiamo soluzioni, diamo sentenze, proclamiamo verità senza prima aver accolto, formato, curato, pregato e pagato di persona.
  • L’ordine che Gesù dà è prima di tutto un potere di liberazione. La tensione (non l’ansia) dovrebbe essere verso l’amare, non verso la prestazione. L’amare genera l’amore e l’amore guida azioni d’amore.
  • L’ordine deve essere per il bene dell’altro. Sembra ovvio, ma non lo è. “Effatà” è qualcosa che è per il bene della persona, è un’apertura molto più grande del semplice ascoltare, ma che comunque dà immediatamente qualcosa alla persona. Quante parole dette, quanti ordini dati sono veramente così toccanti e così liberanti? E poi ci avete fatto caso? Dio va più in profondità di quello che serve, parte dal bisogno dell’uomo!

 La pastorale in conclusione…

Ricapitolando Gesù ci dice che la pastorale è accogliere, formare e curare l’altro dentro una relazione con Dio e una dimensione personale profonda, con l’intento di costruire il bene più profondo dell’altro.

Ma pastorale è anche l’azione della Chiesa, cioè le nostre azioni fatte in nome della Chiesa.

Pastorale, allora è forse l’agire della Chiesa che accoglie, forma e cura l’altro, su richiesta di Dio, in un coinvolgimento nostro profondo.

Il che cosa poi dica o tocchi, viene alla fine, come la più naturale delle conseguenze.

San Francesco e la pastorale

Viene in mente s. Francesco: «Predicate sempre il Vangelo e, se fosse necessario, anche con le parole!». L’agire è segno del credere perché sono le azioni che rivelano se le parole sono vere o meno. La pastorale è azione, perché noi per vivere dobbiamo agire. Perché nell’agire si svela la verità dell’uomo, ma anche il progetto di Dio. Che ha agito nella creazione, nell’incarnazione, nella passione e nella resurrezione. La pastorale è azione, perché Dio ci chiede di agire. La differenza non è nel bollino ecclesiale riconosciuto dall’altro. Verso l’altro noi accogliamo, formiamo e curiamo. La differenza “ecclesiale” è nel nostro rapporto con Dio, nel rapporto con noi stessi e anche verso l’altro.

Il vero senso della pastorale

Facciamo pienamente pastorale solo se ci apriamo all’azione di Dio, se siamo coinvolti profondamente e se cerchiamo il bene pieno dell’altro. Ma se non viviamo queste tre dimensioni la nostra pastorale non arriva alla pienezza.

Senza il rapporto con Dio, non ha senso chiamarla pastorale.

Senza il mio coinvolgimento profondo, non ha senso che io vi sia impegnato.

Senza il bene pieno dell’altro, limitiamo l’azione di Dio.

Forse, in ultima analisi, si tratta solo di aprirci un po’ di più a credere che ci impegniamo tanto perché stiamo restituendo. Si chiama pastorale, perché è una restituzione eucaristica. Che dice “grazie”, che rende “grazie”, e soprattutto che sa a chi dirlo in prima istanza.

Forse, davvero, quell’Effatà, prima di essere rivolto agli altri, è rivolto proprio a noi. Operatori pastorali

 

Gigi Cotichella

Per rileggere “Che cos’è la pastorale” parte uno. e “Che cos’è la pastorale” parte due

Foto del blog di Fra Sereno