In questo articolo volgiamo uno sguardo alla carità come concetto sociale a partire dalla dottrina sociale della Chiesa. Facciamo un confronto tra gli enti del terzo settore con la pratica concreta della dottrina sociale della chiesa. Arriviamo poi, guidati dal nostro formatore, alla conclusione per cui abbiamo bisogno di un concetto nuovo che superi quello di giustizia sociale e sbordi in quello di cura a lungo termine.
Ma la parola non era giustizia sociale?
Già, normalmente il concetto di cui si sente parlare è la giustizia sociale. Ma l’avvento del nuovo pontefice, il richiamo agli emeriti “Leone” suoi predecessori e l’importanza che hanno avuto nello sviluppo della dottrina sociale della Chiesa, mi hanno motivato a tirar fuori una questione calda nel mondo che interseca terzo settore e Chiesa cattolica in Italia: il tema della carità come concetto sociale.
Che differenza c’è tra Giustizia e Carità?
Parrebbe banale, ma lo è meno di quanto vorremmo. Nel concetto di giustizia, se io possiedo due piatti di pasta e tu nemmeno uno, io ti cedo il piatto che mi avanza. Quindi dare ai poveri il tempo che mi rimane, il superfluo del mio armadio, insomma, è giustizia. Carità è invece un costrutto ontologicamente spirituale. Secondo questo concetto: io ho un piatto di pasta e tu nemmeno uno. Ecco io ti cedo il mio piatto di pasta. La carità non è giusta, non è logica, è magnanima.
E la politica?
Se assumiamo con Aristotele che la politica è ricerca del bene (cfr Etica Nicomachea di Aristotele) allora maieuticamente sarà necessario rispondere alla fondamentale domanda: che cosa è il bene? La dott.ssa Mortari, filosofa e pedagogista presso l’Università degli Studi di Verona, assume che la virtù politica per eccellenza, quella che Aristotele definisce come virtù prima, sia l’amicizia, poiché essere amici significa come per ogni altra virtù cercare il bene, in questo caso il bene dell’amico. Essa può essere considerata come il “modo di essere” in cui si esprime “l’essenza dell’agire secondo virtù”, poiché l’amicizia autentica prende forma solo quando tutte le virtù sono compresenti (cfr. L. Mortari, La politica della cura, prendere a cuore la vita).
Il tema non è tanto cosa sia il bene, ma chi sia l’uomo a cui questo bene si riferisce.
È la risposta a questa domanda su “chi è l’uomo” o, come direbbe Hannah Arendt, “che cosa è l’uomo”, fa la differenza sulla postura da cui emergerà ogni scelta politica.
Se l’uomo è sano, integro, autonomo, allora la giustizia sociale è sufficiente. Ma quando l’uomo è una persona fragile, marginale, che ha bisogno di una accoglienza a lungo termine, che necessita di un accompagnamento costante e, soprattutto, quando questa accoglienza resta fuori dai criteri del buon welfare cosa si fa?
Carità sociale come cura: il mito di Crono
In termini laici possiamo dunque dire che la carità sociale è riconoscibile alla stregua del concetto di “cura”, e la fenomenologia definisce quest’ultima come necessità ontologica dell’uomo. Sin dall’antichità gli uomini maturarono questa consapevolezza. Il mito di Crono, narrato da Platone nel “Politico”, racconta l’evento tragico dell’allontanamento della benevolenza degli dèi dalla realtà umana. Vi fu un tempo in cui ogni cosa era in armonia con ogni altra, tutto si produceva da sé a favore degli esseri umani, governate nel loro movimento circolare dal dio Crono.
Ma questa condizione di beatitudine in cui gli esseri umani erano oggetto della cura degli dèi aveva un tempo limitato, e quando il tempo fu compiuto, il dio Crono si ritirò in un punto di osservazione esterno al movimento del mondo e lo lasciò libero e così fecero tutti gli altri dèi. Il mito di Crono enuncia sostanzialmente una tesi ontologica relativa alla fragilità dell’uomo: gli esseri umani vivono nella condizione di “esseri abbandonati dalla cura degli dèi e sono chiamati ad aver cura di sé da sé stessi” (L. Mortari, Aver cura di sé).
In conclusione
Questa affermazione conduce L. Mortari alla conclusione che l’esigenza della cura ha a che fare con una dimensione ontologica dell’essere umano e non può essere categorizzata entro l’orizzonte delle buone pratiche, poiché se ne tradirebbe la natura sostanziale. La carità sociale, dunque, non è un proposito di bene superiore indicato a partire da argomentazioni di carattere spiritualistico, quanto piuttosto una necessità ontologicamente umana.
In termini sociali parliamo di carità sociale come di cura, e viceversa. L’amore che “deve permeare tutte le relazioni sociali” altro non è che la cura, l’amore disposto a decentrarsi, a sacrificarsi perché l’altro gusti bellezza, è cura: cura che l’altro partecipi alla gioia.
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