STARE ACCANTO

Riscoprire il Natale significa tornare all’essenziale: relazioni autentiche, scelte semplici, luce che nasce nel silenzio. In un mondo che ama il clamore, Giuseppe ci insegna che la vera grandezza è stare accanto.

Ri-tornare

Esiste uno spazio-tempo sospeso in cui tutto è possibile, un kairos dove i desideri più reconditi trovano casa, un’occasione in cui l’anonimato feriale decade e l’agguato della luce ferisce il buio e obbliga le tenebre ad arrendersi. Non ho altre parole per descrivere la forza misteriosa del Natale, che instancabilmente torna e si impone con tutta la sua contraddizione e meraviglia.

Il grido del silenzio

In classe in queste settimane ho proposto il nuovo corto della Pixar “Il miglior Natale di sempre”, il piccolo protagonista, un mostriciattolo vivace e tutto colorato, arriva come dono alla bimba che lo ha disegnato sulla lettera per Babbo Natale. Si trova catapultato in una realtà che nemmeno aveva immaginato. Un piccolo essere che non ha voce: non gli è stata disegnata la bocca e non ha la possibilità di parlare, cantare, mangiare, urlare; nonostante ciò è una presenza importante per la sua famiglia, riempie e rallegra la vita della sua ideatrice, diventando il suo migliore amico. Durante la visione mi è venuto spontaneo collegarlo alla figura di Giuseppe, nella Bibbia la sua voce non trova spazio, tutto ciò che sappiamo di lui emerge dai racconti dei Vangeli di Matteo e Luca.

Voce del verbo aggiungere

In ebraico il nome Iosef deriva dal verbo iasàf, aggiungere. Giuseppe è colui che aggiunge, ma non per accumulare: aggiunge silenzio dove regna il clamore, aggiunge fedeltà dove domina l’incertezza, aggiunge luce dove il buio sembra invincibile. È lo sposo “secondo”, il padre “secondo”, l’uomo che accetta di non essere primo pur di custodire il Mistero. In un mondo che corre per conquistare il vertice, Giuseppe ci insegna che la vera grandezza è stare un passo indietro, per lasciare spazio alla Vita che viene.

La beatitudine del quotidiano

Un vero Pater, che custodisce, protegge e consegna il figlio al suo destino. Giuseppe incarna il volto del “puro di cuore”. «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5, 8). Con Beati traduciamo la parola ebraica ashré, che significa lieto. “Lieto è l’uomo che è puro di cuore”. Ogni vera beatitudine ha un trampolino di lancio che è la realtà nuda e cruda che si vive nel qui ed ora. Credere non significa evadere, ma significa capire ciò che ci inchioda, che ci fa soffrire, che ci toglie il sonno, che ci discrimina, che ci opprime e non possiamo fare finta che non esista. Questo è Giuseppe, un uomo che affronta il domani con la sua disarmante normalità. Un personaggio vicino alla nostra vita quotidiana, che non vive il presente come qualcosa che ci condanna e basta, ma come qualcosa da cui partire. Oggi, in un tempo di precarietà e competizione, Giuseppe ci ricorda che la forza sta nelle scelte semplici: lavorare, custodire, amare. Il Natale non è evasione, ma ripartenza. È il momento per riscoprire che la normalità, vissuta con fedeltà, è straordinaria.

Farsi pellegrini

Giuseppe è un uomo che non nega il dolore o la sofferenza, e nemmeno ci scende a patti, ma accetta ed attraversa il suo “hic et nunc”. La grandezza di Iosef traspare dall’accettazione della sua vita e dalla sua capacità di affrontarla. In questo senso la parola “beato” che Gesù pronuncia in realtà suona come una promessa, come una direzione da prendere, come una strada da percorrere nel bel mezzo delle nostre rassegnazioni. I santi non sono degli “arrivati” ma dei “viandanti”. Il nostro Giuseppe indossa la veste del pellegrino, di chi non ha meta se non quella del cuore e ci dimostra che la negazione della santità è rimanere fermi.

La debolezza come superpotere

L’autenticità di Giuseppe è ciò che rimane di lui nel momento in cui perde tutto, in cui si mostra in maniera prepotente la sua fragilità e debolezza. «Quando sono debole è allora che sono forte» (2Cor 12,10), credo che questa affermazione si avvicini molto a ciò che è il concetto di autenticità. La debolezza non è cosa brutta o sbagliata, è cosa umanamente divina, perché ci permette di metterci in ascolto dell’imprevisto. Non è così scontato rimanere umani davanti alle prove della vita, l’unico modo che abbiamo, è quello che ci mostra Giuseppe: restare insieme e rimanere uniti. Il “nostro” Iosef è un uomo fragile, vulnerabile, ma reso forte e sicuro dal legame intimo con Maria, si consegna fra le braccia della sua amata, si fida e con lei crea comunione e condivisione.

Questione di stile

Attraverso Giuseppe la storia si compie. È un uomo che sa cedere il passo, senza cercare riconoscimenti. Il suo è un atteggiamento di umiltà e mitezza. A me piace dire che è una questione di stile: sapersi togliere dai primi posti, liberarsi dalla dittatura dell’apparenza, fare le cose senza secondi fini, solo per bellezza, per amore, per puro piacere. Giuseppe è l’immagine più riuscita di questo stile. Il Natale ci invita a riscoprirlo: non come un’idea astratta, ma come una scelta concreta. Perché la vera grandezza è stare accanto. Accanto alle persone, accanto alle fragilità, accanto alle storie che chiedono ascolto. È questo il cuore del Natale: Dio che sceglie di stare accanto all’umanità, e Giuseppe diventa il volto umano di questa prossimità. In un tempo che corre per apparire, il Natale ci ricorda che la salvezza passa attraverso la semplicità di chi resta.

 

Anna Desanso

Foto di Paul Arky su Unsplash