COME ERAVAMO… L’ESTATE DEGLI ANNI ’90 TRA LIBERTÀ E WALKMAN

Questa settimana Anna Desanso ci fa fare un salto indietro nel tempo riflettendo sulle differenze tra l’estate di ieri e quella di oggi… si stava meglio per davvero? L’attualità dovrebbe imparare qualcosa dal passato?
Cogliamo l’occasione per ringraziare l’editoriale La porta di vetro che ci concesso di riprendere questo loro articolo.

The summer is magic

In questo freddo inizio d’autunno mi riecheggia in testa il ritornello “The summer is magic”, una vecchia canzone del gruppo italiano Playahitty del 1994. Con occhi nostalgici rivolgo lo sguardo al passato e sul mio corpo ho disegnata la mappa delle mie estati, cicatrici che raccontano corse in bici, ruzzoloni nei prati e prove di volo. Piccoli trofei di vita vissuta ed assaporata.

Se avessi la possibilità di fare un viaggio nel tempo sarebbe sicuramente sui passi delle estati della mia adolescenza. Attendevo con ansia spasmodica la fine della scuola per vivere il tempo delle vacanze, perché era un kairos al sapore d’Eterno. Uno spazio dalle infinite possibilità che celava fra le pieghe della quotidianità doni inaspettati e sorprendenti.

Allo squillo dell’ultima campanella si apriva il sipario sul teatro della vita estiva e lì, con l’emozione nel cuore, si iniziava a scrivere il copione di quello che giorno dopo giorno si sarebbe disvelato. Eravamo felici e sognanti, non avevamo grandi programmi o idee prestabilite, ci sentivamo protagonisti del nostro tempo e leggevamo opportunità in ogni piccola cosa.

Il tempo sospeso

L’estate degli anni ’90 era un orizzonte aperto, un tempo elastico in cui ogni giornata sembrava pronta a sorprenderci. Le ore si dilatavano, i confini tra mattina e sera si sfumavano bastava il rumore delle tapparelle che si alzavano, il profumo del caffè nell’aria calda e un citofono che suonava per trasformare il giorno in avventura. Non c’erano programmi, solo la libertà di uscire di casa con la certezza che qualcosa di nuovo sarebbe accaduto.

Le biciclette erano il nostro lasciapassare. Si pedalava senza meta, con le ginocchia sbucciate e le tasche piene di biglie, figurine e gelati sciolti. Ogni strada era un invito, ogni angolo un territorio da esplorare. I campetti erano polverosi, le porte fatte con le magliette, le regole inventate sul momento. Non c’erano adulti a supervisionare, solo il tempo che ci insegnava a stare insieme, a litigare, a fare pace. E in quel disordine spontaneo, imparavamo a crescere.

I pomeriggi erano lunghi e pieni di attese e in quelle attese si nascondevano le emozioni più forti: la curiosità, il desiderio, la paura, l’euforia. Si registravano cassette dalla radio, si sfogliavano riviste sotto l’ombrellone, si facevano telefonate sul fisso con il cuore che batteva forte. Le lettere si scrivevano a mano, le cotte si dichiaravano con sguardi rubati e frasi balbettate. Poi c’erano le cartoline: si sceglievano con cura tra le immagini più belle del luogo, si scrivevano poche righe “Qui tutto bene, fa caldo, ci divertiamo” e si spedivano con la speranza che arrivassero prima del nostro ritorno. Erano piccoli gesti che raccontavano un’estate, un pensiero, un legame.

La noia non era un vuoto da riempire, ma uno spazio fertile dove poteva nascere di tutto: un gioco nuovo, un’amicizia, un sogno. L’estate era il tempo delle prime volte, delle emozioni che non si potevano spiegare, ma che si sentivano forti e vere. Era il tempo in cui ogni giornata poteva diventare memorabile, anche senza foto, anche senza prove. Bastava viverla. L’estate era un tempo lento, un laboratorio di libertà, un campo aperto dove si imparava a vivere.

I simboli dei nostri vissuti

Il Festivalbar era il nostro calendario musicale. Ogni settimana una città diversa, una scaletta di successi, un pubblico in delirio. Le hit parade su TV Sorrisi e Canzoni erano il nostro Spotify analogico: si cerchiava il titolo preferito, si registrava la canzone dalla radio, si imparavano i testi a memoria. Le compilation su musicassetta giravano tra amici, consumate fino a sbiadire. Il giornale Cioè era un rito settimanale: poster, test, segreti, oroscopi e pagine da strappare per scrivere lettere mai spedite. Era il nostro specchio, il nostro confessionale, il nostro modo di sentirci parte di qualcosa. La Smemoranda, anche d’estate, era il nostro diario parallelo: piena di frasi sottolineate, disegni, biglietti conservati, pensieri scritti a penna blu. Era il luogo dove mettevamo ordine nel caos delle emozioni.

Intanto la TV ci bombardava di spot che oggi sono diventati veri e propri cult. Slogan scolpiti nella memoria, piccole colonne sonore della quotidianità che ancora oggi riaffiorano nei discorsi, nei ricordi, nei sorrisi:

 “Che mondo sarebbe senza Nutella?” – un interrogativo che sembrava esistenziale, e in fondo lo era.

“Dove c’è Barilla, c’è casa” – più che uno slogan, una dichiarazione d’affetto.

“Two is megl’ che uan” – il tormentone di Maxibon che ha insegnato l’inglese a un’intera generazione.

“O così o Pomì” – essenziale, diretto, inconfondibile.

“Falqui: basta la parola” – minimalismo pubblicitario ante litteram

“Cosa vuoi di più dalla vita? Un Lucano.” – semplice, diretto, memorabile.

“Silenzio, parla Agnesi” – quando bastava un piatto di pasta per dire tutto.

“Ambrogio… ho un leggero languorino” – Ferrero Rocher, eleganza e golosità.

Questi slogan non erano solo pubblicità: erano modi di dire, battute da usare tra amici, frasi che entravano nel linguaggio comune. Erano il sottofondo delle nostre estati.
La sera arrivava piano, tra il canto delle cicale e il profumo di citronella. Si usciva di nuovo, stavolta per sedersi sui muretti o incontrarsi in piazza, per parlare guardandosi negli occhi, per ridere senza fretta. Le stelle sembravano più vicine, e il futuro ancora lontano.

I giorni con i nonni

Una parte preziosa di quelle estati era il tempo trascorso con i nonni. Per me significava immergermi nella vita di campagna, lontano dal rumore della città e dal ritmo frenetico delle giornate scolastiche. Le mattine iniziavano presto, con il sole ancora timido e l’aria che profumava di terra umida. Si andava nell’orto a raccogliere pomodori, zucchine, fagiolini. Le mani si sporcavano di terra, ma era una terra che sapeva di casa, di radici, di cura. La frutta si coglieva direttamente dagli alberi: pesche morbide, prugne dolci, fichi che si aprivano al sole.

Poi si tornava in cucina, dove si preparavano le conserve. I barattoli bollivano in grandi pentoloni, le etichette si scrivevano a mano e ogni gesto aveva il ritmo lento della tradizione. Era un tempo fatto di gesti semplici, di parole dette piano, di silenzi condivisi. I nonni non avevano bisogno di insegnare: bastava stare con loro, osservare, imitare. Quelle giornate erano un altro tipo di scuola. Una scuola di pazienza, di rispetto, di gratitudine. Anche se allora non lo sapevo, stavo imparando a riconoscere il valore delle cose fatte con le mani, del tempo speso senza fretta, dell’amore che si trasmette attraverso un piatto cucinato insieme o una cesta di verdure appena raccolte.

E oggi?

Oggi l’estate si vive in modi diversi. I ritmi sono cambiati, le abitudini anche. La tecnologia ha portato nuove possibilità, nuovi strumenti per raccontarsi, per restare in contatto, per custodire i ricordi. Le esperienze sono più immediate, più visibili, ma il desiderio di autenticità quello resta. Cambiano le forme, ma il bisogno di sentirsi liberi, di vivere momenti che lasciano il segno, è lo stesso.

Non si tratta di rimpiangere, ma di riconoscere che ogni generazione ha il suo modo di cercare il senso delle cose. Se negli anni ’90 bastava una bici, un walkman e un muretto per sentirsi vivi, oggi si cercano altri spazi, altre connessioni, altre emozioni. È semplicemente un modo diverso di vivere lo stesso bisogno.

Forse, però, vale la pena ogni tanto rallentare. Riscoprire il gusto di una giornata vuota, di una chiacchierata senza fretta, di un ricordo che non ha bisogno di essere condiviso per esistere. Perché l’estate, quella che resta dentro, non è fatta solo di mete, ma di momenti, di respiri, di sguardi, di piccole cose che ci accompagnano anche quando il sole se ne va.

Un invito alla memoria

Riascoltare The summer is magic oggi non è solo un tuffo nel passato. È un modo per tornare a un tempo in cui bastava esserci, dove il mondo si esplorava a piedi, in bici, con le tasche vuote e la testa piena di sogni. In cui ogni estate era un viaggio, anche senza partire. E forse, proprio lì, tra le sfumature di un tempo più lento, possiamo ancora ritrovare qualcosa che ci appartiene. Un modo di vivere che non ha bisogno di essere dimostrato, ma solo vissuto. Per rimanere in tema musicale, come canta Jovanotti, sento ancora oggi l’eco di quelle estati addosso. Una protezione leggera, che non pesa ma avvolge. Una corazza di bellezza che resta, anche quando tutto cambia.

Anna Desanso

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