IL CAPITALE INVISIBILE DA RISCOPRIRE

Rifacendosi a un libro pubblicato nel 1975 da Giovanni Gozzer, il nostro formatore Antonio Di Lisi ci accompagna in un percorso alla scoperta del capitale invisibile, elemento ancora oggi poco dibattuto.

Cos’è il capitale sociale?

Con questo termine Gozzer si riferisce a tutte quelle risorse immateriali che ognuno di noi ha, seppur in quantità e modalità differenti. Con risorse immateriali si intendono le competenze, le conoscenze, le esperienze e abilità che non sono visibili immediatamente, ma al tempo stesso sono fondamentali per lo sviluppo personale in ogni ambito della vita sociale e lavorativa.
In altre parole Gozzer nel suo testo cerca di orientare il nostro sguardo non tanto, e/o non soltanto, sulla prestazione tecnica, sul prodotto, sul rendimento in senso stretto, ma piuttosto a tutte quelle risorse intangibili che è importante riconoscere e valorizzare, perché facendolo in realtà si valorizza la persona in quanto tale.

Quale ricaduta ha questo concetto nella vita concreta?

Per capirlo meglio possiamo citare uno studio del Sole 24 Ore che sottolinea un dato alquanto allarmante: gli italiani a lavoro non sono contenti e, soprattutto, si sentono “invisibili”.

“Solo un lavoratore su due, in Italia, si sente davvero connesso ai valori dell’azienda per cui lavora, secondo il Randstad Workmonitor. Non parliamo solo di uno scarso coinvolgimento, ma di un vero e proprio vuoto relazionale che porta le persone a non riconoscersi nell’ambiente di lavoro. Molti collaboratori/trici si sentono invisibili, non ascoltati né compresi, quasi fossero semplici ingranaggi di una macchina molto più grande. E questa sensazione di invisibilità genera distacco, rottura e abbandono.”

È in questa sensazione di invisibilità, e nel concetto di sentirsi semplici ingranaggi di una macchina, che forse è necessario approfondire quanto detto sul capitale invisibile. Se da un lato, infatti, è vero che bisogna raggiungere degli obiettivi, dei risultati, dei profitti, dall’altro sarebbe anche importante che si raggiungessero nel migliore dei modi, ossia mettendo la persona nelle condizioni di sentirsi utile, di sentirsi capace e di avere anche una buona autoconsapevolezza delle proprie risorse.
E questo discorso vale tanto per il mondo del lavoro quanto per la scuola, con la differenza che quest’ultima da tanti anni lavora sul riconoscimento del capitale invisibile degli studenti. Un esempio su tutti è lo sforzo di portare avanti il Portfolio scolastico.

Per valorizzare la persona ci vuole una “ricetta”

 Sembrerebbe, in ultima analisi, emergere un dato importante quanto da un certo punto di vista forse anche scontato: la persona rende meglio quando si sente partecipe e protagonista dei processi di cui fa parte e che porta avanti.  In altre parole, che sia a scuola, che sia al lavoro, che sia in famiglia la persona ha bisogno, per quella che è la nostra esperienza, di:

  • sentirsi ascoltata;
  • fruire una comunicazione efficace e non ostile;
  • sentirsi riconosciuta;
  • sentirsi vista.

Io ti ascolto

L’ascolto non è un atteggiamento scontato, soprattutto in certi ambienti molto competitivi, perché spesso si è più concentrati sull’affermazione del proprio punto di vista a discapito dell’altro. In questo senso un atteggiamento pro-attivo sarebbe imparare tutti l’arte dell’ascolto attivo, ossia un ascolto che è più del sentire, in quanto attento anche al contesto, allo stato d’animo, al non-verbale, insomma alla persona nel qui e ora.
A questo punto la comunicazione diventa già più efficace, perché nel momento in cui l’ascolto è reale, è circolare, siamo più attenti all’altro. Il riconoscimento tocca proprio il punto emerso dall’articolo del Sole 24 ore, ossia il ri-conoscere il valore del lavoro svolto, ma soprattutto ri-conoscere il valore della persona che lo ha svolto. Dove per dare valore si intende proprio il senso etimologico di “virtù dell’animo”.

Io ti vedo

Infine non è meno importante il sentirsi visti, inteso non in senso narcisistico, ma come ri-conoscimento della storia personale, scolastica, lavorativa che evolve e si sviluppa negli anni. Il pedagogista Duccio Demetrio afferma che “noi siamo storie” e, in quanto storie, siamo in evoluzione. Noi non siamo gli stessi di ieri, di un mese fa, di un anno fa, in ogni contesto e in ogni ambito. Sentirsi visti, in questo senso, vuol dire narrare la storia della persona e il suo sviluppo nel tempo all’interno della relazione con l’altro. È celebre, per rimarcare il concetto, una frase del film “Avatar” di James Cameron, in cui una protagonista dopo mesi di convivenza con un altro protagonista esclama “io ti vedo”. Quella frase, nel contesto particolare del film, voleva sottolineare come il tempo dell’accompagnare aiuta a conoscere una persona e a vederla nella sua evoluzione.

In conclusione

Ognuno di noi, qualsiasi sia l’ambito in cui opera, ha bisogno di sentirsi visto e ascoltato da qualcuno che lo accompagni nella narrazione della propria storia, i suoi cambiamenti, i suoi successi come le sue cadute. Solo così, forse, potremo avere il coraggio di fare sempre un passo in avanti, rialzarci, raccogliere le forze, curare le ferite.

 

Antonio Di Lisi

Foto di David DINTSH su Unsplash