LA COMUNITA’ ACCADEMICA

L’università oltre la narrazione mediatica. Riscoprire la forza e la peculiarità del contesto accademico come culla di crescita reciproca e di sviluppo pieno della persona umana. 

Ampliarne la conoscenza per prendersene cura

La narrazione mediatica degli ultimi anni attorno al mondo universitario è stata polarizzata su due tematiche: l’eccellenza e la morte.

L’eccellenza basata sulle prestazioni e sui numeri, laureati prodigio che bruciano le tappe si alternano alle classifiche delle migliori università. La morte di chi si sente oppresso da questo prestazionismo e decide di uscirne nella maniera più drammatica e definitiva che ci possa essere.

Esiste un’altra narrazione, quella di chi invece sta nel mondo universitario e con i suoi abitanti è ricca di sfaccettature, di talenti, di bellezza, di domande e di desiderio. Questa è una delle nostre narrazioni del mondo universitario, nata dallo scambio di esperienze, di pensiero, di sogni realizzati e sogni infranti, di paure e di ostacoli incontrati.

“Si stava meglio quando si stava peggio”

Ci siamo accorti che, pensando al mondo universitario, cadere nel classico detto “si stava meglio quando si stava peggio” fosse davvero facile.

Ieri c’era un professore che insegnava e trasmetteva il sapere a un piccolo gruppo di studenti, conosciuti per nome e per storia e che pendevano dalle sue labbra. C’era tra di loro una relazione.

Oggi ci sono aule sovraffollate, si fa lezione seduti per terra o addirittura nei corridoi, il professore non riconosce neanche i volti degli studenti, figuriamoci se sa i loro nomi.

Laureati di ieri vs laureati di oggi 

Ieri il laureato era un sapiente, rispettato e riconosciuto socialmente, la sua parola aveva un peso rilevante. Oggi il laureato è uno dei tanti, con un curriculum simile a tanti altri, non si differenzia e spesso viene zittito da informazioni chieste a un motore di ricerca, classico o semantico come ChatGPT.

Ieri gli studenti condividevano la quotidianità, andavano a lezione insieme, studiavano insieme, mangiavano e dormivano insieme. Oggi sanno a malapena i nomi di chi siede con loro nelle aule e fanno fatica a condividere gli appunti.

Ieri un laureato aveva una strada delineata davanti, sapeva quale sarebbe stato il suo lavoro, ancor prima di finire gli studi. Oggi un laureato non sa neanche se troverà un lavoro, sperare di fare un lavoro per quello che ha studiato suona quasi come un’utopia.

Perché vai in università?

Perché iscriversi quindi all’università? Chi o cosa spinge (o potrebbe spingere) i giovani diplomati a sostenere la fatica e le sfide del mondo universitario? Perché restare all’interno dell’università magari tutta la vita con la ricerca, l’insegnamento o la cura di tutto ciò che è oltre l’insegnamento (organizzazione, contabilità, front office, segreteria…)?

Questa domanda ha attraversato anche me e ho desiderato porla ad altri. Le risposte sono molteplici e complesse. A volte ci si iscrive perché “ho fatto il liceo e quindi devo iscrivermi all’università”, altre volte perché lo impongono la famiglia e/o le attese nostre e di chi ci è accanto. Talora perché permane la convinzione (a volte inespressa) che una laurea faciliterà l’inserimento lavorativo.

Ogni anno dopotutto esce lo studio che mette in evidenza quanti laureati hanno trovato subito lavoro, quali facoltà hanno una percentuale più alta di neolaureati assunti, quali sono i corsi più efficaci per inserirsi nel mondo del lavoro, ecc. In certe circostanze, ci si iscrive all’università per amore. C’è qualcosa, lo studio di una materia o un ambito del sapere o un possibile auspicabile desiderato lavoro futuro, che muove il giovane diplomato a scegliere una certa facoltà, una certa strada piuttosto che un’altra. Talvolta non è nemmeno la strada più semplice o la più consigliata.

Un percorso ad ostacoli

Indipendentemente dal movente iniziale, una volta iniziata saranno numerose le insidie che ogni universitario dovrà affrontare: burocrazia, lezioni che si accavallano o che saltano all’ultimo (senza la gioia provata alle superiori per le ore buche), tempi di studio molto dilatati, una quantità ingente di materiale da studiare, il senso di solitudine, l’incomprensione del percorso che si sta facendo, studiare materie completamente nuove…Non è un caso che molti abbandonino gli studi. Il percorso universitario non è semplice. Se si aggiunge che questo a volte avviene lontano dalla rete sociale che ci si è creati, le difficoltà aumentano esponenzialmente. C’è bisogno di costanza e determinazione per arrivare alla fine, per avere quel fantomatico “pezzo di carta”.

Il ruolo degli adulti

E gli adulti? Per i “grandi” dell’università? Potrebbe essere un lavoro di “necessità” oppure un’occasione che è capitata e si è deciso di cogliere. Altrimenti potrebbe essere, anche qui, una scelta fatta per amore. La passione e la curiosità profonda per una materia che ti spinge a essere un ricercatore; essere talmente innamorato di una materia, vedendone la bellezza oltre la difficoltà, che non puoi fare altro che trasmetterla, raccontarla, a qualcun altro. Percepiscono l’urgenza di riconoscere l’università come un luogo-tempo importante che necessita di tutta una serie di attenzioni e di cure e decidere di dargliele. Nonostante la fatica, nonostante l’incertezza che è entrata anche nella pubblica amministrazione, nonostante l’enorme quantità di lavoro.

La spinta motivazionale

Quindi, perché stare nell’università? Qual è quel quid pluris? È davvero solo il riconoscimento dello studio di un corso di laurea? Se fosse così basterebbe studiare da autodidatta sostenendo ogni tanto qualche esame.

L’università può (dovrebbe?) essere quel tempo di vita fecondo dedicato all’esercizio della propria libertà di scelta.

Come studenti, perché si sceglie come organizzare lo studio, quanto tempo dedicare a una materia piuttosto che a un’altra, quanti esami sostenere durante la sessione, quanto approfondire lo studio, se presentarsi all’appello o meno…si è fuori dalla scuola dell’obbligo e ogni giorno si sceglie se andare o meno a lezione, se “sprecare” le ore stando in un’aula strapiena ad ascoltare qualcuno. Ma non solo. Si sceglie anche se partecipare, e come, alla vita universitaria: aderendo o meno a un organo collegiale, informandosi circa i cambiamenti e le modifiche dei vari regolamenti e non solo, partecipando alle iniziative promosse.

Soprattutto, vi è la possibilità di scegliere di essere e di riconoscersi tutti come adulti in formazione che possono arricchirsi vicendevolmente partendo dalle differenze di vedute, colmando i vuoti che ognuno ha, aggiungendo tessera dopo tessera alla creazione di un mosaico variopinto e variegato quale è la realtà accademica. Con l’obiettivo di farla crescere, prendendosene cura insieme.

Essere tutori in e dell’università

Il lavoro del “tutore” dell’università non è semplice, non è esente da fatica e non può essere delegato a un singolo. Dove c’è pluralità, è bene ricordarlo, c’è anche conflitto.

Sebbene possa sembrare paradossale, questi due concetti, conflitto e cura, hanno tanto in comune. Entrambi esistono dentro una relazione che presuppone il riconoscere l’altro, stanno dentro una pluralità, un’alterità che chiede e necessita di essere riconosciuta come altro, come diverso. Entrambi, affinché non si appiattiscano in schemi circolari e nullificanti, hanno bisogno di un ascolto attento che rispetti i tempi e dia spazio al pensiero e alla voce dell’altro. E non è possibile conflitto o cura senza contagio, senza toccarsi e questo genera uno sfregamento, uno smussamento degli angoli più pronunciati. Sia la cura che il conflitto possono distruggere chi abbiamo di fronte. Ma se riconosciamo l’altro che ci è davanti, che sia studente o professore o personale, come portatore di pensiero, di storia, di ricchezza, di bellezza, allora cura e conflitto sono generativi, portatori di novità e crescita.

Un invito per tutti

Forse l’università ha bisogno del contagio. Ha bisogno, oggi, di quella contaminazione che l’ha caratterizzata ieri.

Come rendere fattibile questo nell’università di massa dove l’elemento fondante dell’università, il vivere insieme, è venuto meno? Ripartendo dall’esercizio della propria libertà, scegliendo di collocarsi in università in una determinata posizione, con un certo stile, con uno sguardo ampio. Scegliendo di vedere, di ascoltare, di dar peso, di riconoscere chi si ha di fronte tutti i giorni: il compagno, il professore, lo studente, il bidello, il segretario…

Riconoscere l’altro è il primo passo. Il secondo è scegliere di entrare in relazione con lui, di far dialogare le nostre idee, le nostre competenze, le nostre conoscenze con l’obiettivo, e la speranza, che questo incontro sia generativo di un qualcosa di nuovo, inedito ed innovativo. Tutto questo per il bene comune, quello di tutti, all’interno del quale c’è anche il nostro.

L’invito che diamo ad ogni abitante dell’università è quello di dare una direzione responsabile alla propria libertà, mettendo al servizio dell’altro il proprio studio. Se lo studio resta legato esclusivamente a una aspirazione personale rischia di restare sterile e di esaurirsi. Se invece riusciamo a farlo entrare davvero in relazione con l’altro, che sia una persona o un problema reale, allora questi diventa generativo di un pensiero alternativo incarnato nel tempo e nello spazio contemporaneo, rispondente alla terza missione dell’università e unificante della molteplicità di approcci e conoscenze accademiche.

Ha ancora senso, oggi, iscriversi all’università? Ne vale la pena? Sì. Se scegli di viverla responsabilmente e non di farti vivere da un sistema.

Irene Raimondi

 

Foto di Brooke Cagle su Unsplash